Cosa facciamo? Hai voglia di camminare prima? Sì. Allora lasciamo qui la macchina col cesto, torneremo poi. Lì a mezzora dalla cima. Siamo saliti a piedi. Nella meraviglia del bosco lussureggiante, nel suo rigoglio di primavera e di acqua, dopo anni siccitosi. Una fantasmagoria di fiori, di gemme, di tonalità di verdi, di getti, di polloni, fiori, erba, edera e gramigna, i maggiociondoli a destarsi, pronti per i loro sbuffi di giallo.
Fino alla sommità. In pochi minuti di auto into the wild, nella selvaticità, nel silenzio, fino alla goduria, al sublime fatto di deserto umano e folla silvestre. Fino al primo poggio, con la chiesa romanica tutta storta ormai e il prato verde, fitto, tagliato di recente, che arriva fino alla pietra serena vecchia di secoli. Sono deliziosi queste mini topologie agresti in cui l'asfalto, la presenza tumorale ed aggressiva delle funzionalità proautomobilistiche sono semplicemente assenti.
A destra e sinistra panorama infinito, tutte le onde di valli e vette, per decine di chilometri, le cime d'appennino ancora con ampie chiazze bianche, la neve d'inverno che sarà dolce chiara fresca acqua. Alcune imbacuccate di nuvole, nuvole un po' impazzite, un po' di rosa rosso poi ciclamino del sole che andava giù. Il vento fresco, ci mancava poco ai 900 e passa metri della sommità era il respiro del paesaggio, l'alitare della Natura. Poi il secondo tempietto romanico, più piccino e fors'ancora più storto. Mica scemi i preti - ha sbottato A-Woman. No, mica scemi. Neppure i celti e gli etruschi e i romani, no, mica scemi. Fino alla balconata a strapiombo di metri ai centinaia sotto, a vedere le cose belle e i tumoretti umani, le orride diarree edilizie più a nord, il degrado del progresso-sviluppo-tumore umano. Una poiana, splendida, si è allontanata con una splendida planata, disturbata da 'sti due rompicoglioni, che stiano a casa loro, avrà pensato.
Siamo tornati, stava diventando scuro, fino all'auto, tra pini neri e aceri e querce e frassini e fiori e pioppi ontani, non ti scordar di me, orchidee e rocce con il profumo di elicriso. Ecco il cesto, per la nostra cena. Prendiamo questo e torniamo là; è coperto e protetto dal vento.
Abbiamo steso sul tavolone in legno la tovaglia a quadretti, i piatti con i fiori, i bicchieri e le posate, acceso le due lanterne e le due fiamme nel coccio. Misticanza con tarassaco, bietolina e fiori di borragine, patate al forno - fredde avevano un velo di tristezza sul loro sapore spaccone- gli assaggi di guanciale, le due bracioline cotte il giorno prima, il rosso buono ma buono sì, forse troppo piccola la boccia, le olive. Sotto quelle arcate noi, il silenzio, solo una civettta lontana che iniziava il suo canto serale. Sempre più buio. Brillavano gli occhi di UnaDonna per la sorpresa, di riflesso quello di UnUomo a godersi la gioia data. Mi sembra di essere in vacanza, aveva detto. Calava il buio, rimanevano i quattro lumi, noi. Vedavamo i nostri occhi, rimaneva, di tanto in tanto lo sfiorare delle mani. Hai freddo? Ha preso la coperta, messa sulle gambe a scaldarle. A metà della nostra cena silvestre, ci siamo allontanati di qualche metro, per osservare, compiaciuti, il piccolo barlume di presepio, tra le pietre di quelle arcate storte e piccole, nel silenzio della notte.
Il buio, il silenzio e il silenzio, un po' di timore - è luogo di lupi - a tratti, a condire la nostra eccitazione, a insaporire la nostra festa feriale silvestre.